lunedì 5 aprile 2010

MeXòlotl


La mia arte mi supera,
Va dove tutto circola.
Respira, mi chiama,
Disturba il mio sonno,
Me lo concede.
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Non ha anima,
Se non quella
Di tutte le anime.
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Si raffredda
Col tocco.
Si incendia
Col pensiero.
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Ruba l'aria alla Terra.
Con lei vive,
Nei suoi cerchi,
Nei suoi ritorni,
Nella sua assenza.
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Fino a quando
Quel che è
Non sarà
Niente più
Di quel
Che era.
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Ci muoviamo in cerchi.
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"Third:
Try to break through
Long to connect
Fall on deaf ears and failed muted breath"
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martedì 2 marzo 2010

Wish of a Lifetime


tratto ed adattato da Special Senior Moments, di Selena Roberts,
Sports Illustrated Vol. III, N. 25, 28 Dicembre 2009, Time Inc.
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Nancy Tarpein non era abituata alla cavalleria. Da anziana occupante di una di quelle roulottes che viste dal cielo sembrano pezzetti di gomma sparsi alla base delle Rocky Mountains del Colorado, era abituata ad essere trascurata da una cultura americana che celebra benessere economico e gioventù. Vedova, 73 anni di età, con un assegno mensile della sicurezza sociale di 776 dollari, doveva badare a se stessa ed al suo cane, vivendo nella periferia di Denver. Certamente, lei non si sarebbe mai aspettata che un atleta di 26 anni, che aveva tra l'altro sfilato per la firma di Abercrombie & Fitch, si interessasse a lei. Ma il 14 Ottobre 2008, Jeremy Bloom (in alto, a sinistra) ha spazzato via le "certezze" di Nancy.
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In quel giorno, Bloom non sarà affatto sembrato un tre volte campione del mondo nello sci freestyle, nè un due volte atleta olimpionico, nè una star del football dell'Università del Colorado, nè un giocatore dei Philadelphia Eagles della NFL, e nemmeno un ragazzo-copertina. Lui si stava prendendo cura di un desiderio, e quella era la sua prima occasione. Bloom aveva da poco fondato "Wish of a Lifetime", un'associazione nonprofit dedicata ad esaudire i desideri di persone anziane al di sotto della soglia di povertà. Recentemente, in Novembre, Bloom aveva abbandonato lo USA Ski Team, e dunque la possibilità di partecipare alla terza Olimpiade della sua carriera (Vancouver 2010), per dedicarsi totalmente - una volta che anche la sua carriera da giocatore di football professionista era terminata, data la negativa esperienza coi Philadelphia Eagles e con i Pittsburgh Steelers - alla sua associazione con base a Denver. "Ho speso più di 12 anni pensando alla mia vita. Ho creduto che fosse tempo di pensare anche agli altri".
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La signora Nancy Tarpein è stata una delle prime persone aiutate dall'associazione di Bloom. Il loro primo incontro avvenne nel 2008, durante il tredicesimo anno in cui la signora Tarpein serviva come "nonna adottiva" in una scuola elementare, aiutando bambini di 5 anni. La signora ricorda di aver persuaso una bimba con difficoltà di apprendimento a ripetere a memoria tutto l'alfabeto, promettendole in cambio una bambola. Dopo che la bimba ripetè l'alfabeto senza commettere neppure un errore, ricevette una vecchia bambola che la signora aveva a casa, senza sapere che valeva 400 dollari, ovvero più della metà del suo assegno di sostentamento mensile. "Chi lo sapeva? Ma quella bambina se la era meritata" disse in seguito. La signora Tarpein riempì un questionario sottopostole dall'associazione di Bloom, ed alla domanda "In quale posto nel mondo andresti, se potessi?", ella rispose "in Arizona, a trovare mia figlia Lucille, cui hanno diagnosticato un cancro". Il viaggio, 15 ore di auto per una distanza di oltre 1450 km, era troppo lungo per Nancy, mentre l'aereo era troppo costoso. "Parliamo al telefono. Ma non la vedo da cinque anni. Ora sembra star meglio, ma l'anno scorso aveva così tanta paura ed era così giù di morale che non ero sicura di poterla rivedere prima di perderla per sempre". Senza assicurazione medica, Lucille non poteva accedere ai trattamenti intensivi che le avrebbero allungato la vita.
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L'aiuto che Bloom le diede fu quello di mandare un suo collaboratore, incaricandolo di accompagnare la signora Tarpein all'aeroporto di Denver e poi sul volo che l'avrebbe portata fino a Phoenix, in Arizona, il tutto ovviamente a sue spese. Nancy e Jeremy si incontrarono all'aeroporto di Phoenix. Lui prese un'auto a noleggio, caricò i bagagli e la portò nel posto dove Lucille ancora lavorava, una tavola calda. Parlarono e mangiarono, e quando venne il momento di pagare il conto, Jeremy posò sul tavolo 100 dollari, compresa la mancia. "Hai reso questo giorno speciale per mia figlia", gli disse Nancy. Per i due giorni successivi, Nancy Tarpein potè abbracciare sua figlia e tenerla mano nella mano. [...]
He sees the neglected elderly, and understands what they're worth.
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sabato 27 febbraio 2010

Viaggio a Isla Negra



El mar me pareció mas limpio que la tierra, por eso me vine a vivir en la costa de mi patria entre las grandes espumas de Isla Negra”.
Pablo Neruda

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Qualche asse di legno dipinta di azzurro, un paio di grandi vetrate ed è tutto quì. Ho viaggiato per quasi 10.000 km per capire che è la semplicità che mi sconvolge la vita. Dovrebbero scriverlo, a volte, sul biglietto dell'aereo: "non serve fare tanta strada per trovare quello che cerchi". Dodici lunghe ore d'aereo per rompere con un passato invadente e angusto, poi un paio d'ore di autobus, da Santiago fino a Quisco, nel cuore del Cile pensante. Non sono riuscito a coinvolgere nessun amico in questo viaggio. un pò per i soldi, un pò perchè tutti sembrano catturati dalle loro vite, e nessuno ha più la voglia o il coraggio di far respirare il cuore. La risposta più gettonata è stata "io non sono un tipo romantico come te", ma forse dicono così perchè non hanno più il coraggio di emozionarsi. Non ci riescono e non lo ammettono. Non ci voglio pensare. Ora, a dirla tutta, siamo soltanto io, la mia moleskin, e l'odore dell'Oceano che s'infrange sulla spiaggia. Io e la mia moleskin, e poi, non molto lontana da quì, la Patagonia. Sembra un immenso deja-vu: mi basterebbe solo incontrare un paio di tizi e scoprire che assomigliano a Chatwin e Sepùlveda, perchè questo pomeriggio non dev'essere molto diverso da quello in cui quei due si incontrarono in un caffè di Barcellona. Questo posto si chiama Isla Negra, e l'unica spiegazione che riesco a darmi è la seguente: visti tutti i colori che ci sono quì, bisognava dar risalto al nome giocando sul contrasto, e il colore negro andava benissimo. Negro como la noche, o come le facce dei campesinos che ogni tanto passano da quì.

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Già, ho fatto bene a nominarli. Vorrei che tutti gli amici a cui ho chiesto di seguirmi fossero stati con me sull'autobus dal quale sono sceso dieci minuti fa. L'aria era pesante, ma non per il caldo. Non c'è acqua quì per chi non ha soldi, e negli ambienti angusti si sente l'odore della sua mancanza. Il Cile è ancora il Paese dei rifugiati politici, delle caste e della povertà estrema, e anche se è raro vedere dei contadini, specialmente tra le villette turistiche che ornano questa costa, si sente ancora il pesante alitare del gigante dormiente, le Ande, dietro di noi, col suo bel carico di freddo, nefandezze e storie di povertà. E quando qualcuna di queste storie scende dalle montagne e te la ritrovi seduta accanto a te sull'autobus, come fai a ignorarla? Ho detto a me stesso che ho pagato il biglietto della vita, e voglio vedere tutto, senza ignorare niente. Questo agli amici non l'ho detto. Loro credono che sia partito per un viaggio di piacere, culturale o gastronomico, o per qualsiasi altro motivo strampalato che sono riusciti ad accoppiare al mio nome. La verità gliela dirà questa moleskin...

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Dedicherò al Cile di Pinochet altre pagine, ben più amare di questa. Ora sono fermo quì, in una strada che si chiama Poeta Neruda, in località Isla Negra, 100 km ad ovest di Santiago. Lo leggo da un cartello di legno dipinto di nero, con le lettere in bianco, e mi chiedo come resista alla salsedine. Cinquecento metri più in giù, ma non più di questo, c'è l'altro grande gigante dormiente di questo angolo del sud del mondo, l'Oceano. A dirla tutta, non penso che sia per niente Pacifico. E' incazzato. Forse avverte la presenza dello straniero ficcanaso, che imbratta le sue pagine e poi svela i segreti del posto...

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Sento rumori. Le assi di legno sembrano parlare. Eppure quì non c'è nessuno, solo io ed il vento. Mi chiedo a quanta gente passata da quì sarà sembrato di ascoltare la storia di questa casa, che sembra una barca di legno. Si dice che, al suo interno, ogni stanza sia arredata in modo diverso, con delle collezioni di navi dentro bottiglie di vetro, mappe e quant'altro possa ricordare il mare. Questa è la casa di Pablo Neruda, ma potevano anche metterci un cartello con su scritto "siamo stati noi l'ispirazione per Capitan Findus". Ci avrei riso su. E invece son quì che mi devasto, nel tentativo di capire come si sentirebbe una donna quì, come ci stava la moglie di Pablo, Matilde, e come si sentirebbe un'altra che non si chiama Matilde e che non ha un compagno che si chiama Pablo. Forse dovrei portarcela e basta. Senza pensare. Sperando che anche lei rimanga inebriata dall'odore del mare che sale sulla collinetta e che, sfiorando il tuo naso, ti fa capire che non bastano cento vite per scoprire quanto sia bella una...

domenica 14 febbraio 2010

"Voglio fare con te quello che la primavera fa con i ciliegi"


Le do la mano mentre risaliamo questo spettacolare scorcio di scalinata, nell'unico momento della giornata in cui l'isola può respirare. Le avevo promesso che avremmo evitato tutte le banalità, tutte le frasi fatte ed i viaggi pronti, perchè ho litigato da piccolo con le etichette. Ed eccoci quì, silenti e raggianti, a prendere parte ad un evento che accade in ogni sera delle nostre giornate, ma molto raramente nelle nostre anime. Il sole va giù ed incendia l'orizzonte, di fronte alle coste frastagliate di Santorini, e noi avanziamo verso lo spettacolo tenendoci per mano, arrancando sulla gradinata trasportati solo dalle nostre umili ciabatte e dalla nostra voglia di immenso. Il cielo è grande sopra di noi, e collega tempi e spazi infiniti, futuri e passati reali, alternativi o sognati, genti mai conosciute e genti che verranno. La sua pelle è liscia e riflette l'eco della stella che non c'è più, e pare morbida, profumata, immensa come le venature rosso fuoco che si stemperano nel blu della notte che incombe. Sono stati giorni molto semplici questi: solo ciabatte lavorate a mano, comodi costumi, qualche libro e migliaia di pensieri scagliati contro il cielo, come a voler ricordare a noi stessi che esistiamo a prescindere da tutto ciò che è materiale. Sento la sua mano stringere forte la mia, a voler significare che si fida del regista di tutto questo, e allora, appena arrivati in cima, ci sediamo a cavalcioni sul muretto bianco che delimita la strada, e parte l'incanto. Tra tutti coloro che vorrei fossero con me, o coloro che vorrei essere in questo momento, nessuno eguaglia la mia persona, ma mi trovo costretto a prendere in prestito le parole di Pablo Neruda, un uomo che ha respirato sogni, difficoltà ed aria d'oceano, per tirare fuori, anche se solo con gli occhi, tutto ciò che ho dentro. Perché tu possa ascoltarmi le mie parole si fanno sottili, a volte, come impronte di gabbiani sulla spiaggia*.
Le si dilatano le pupille, lo sguardo le si fa serio, tremante, eccitato e forse anche impaurito, perchè è vero che quando i momenti che viviamo sono importanti, non sappiamo mai quale espressione tenere, e quindi le proviamo tutte. Non assomigli più a nessuna da quando ti amo*.
Voglio fare con te quello che la primavera fa con i ciliegi*, e farti sbocciare, vivere, rivivere, stancarti, rifocillarti, sognarti, desiderarti, farti piangere, sorridere, dipingerti, colorarti, descriverti, assuefarti a me, o forse più banalmente voglio amarti. Non importa questo posto, nè queste ciabatte, nè la gente che ci sta intorno, nè il fuoco sulla spiaggia di queste notti. Importa il tempo, importa il modo, importa la luce nei tuoi occhi, importano le tue labbra soffici e tremanti, importa il vento tra i tuoi capelli.
Importa il fatto che se non fossi quì, ti verrei a cercare in mezzo ai ciliegi...
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* da Pablo Neruda, Venti poesie d'amore e una canzone disperata, traduzione di Roberta Bovaia, Guanda.

mercoledì 19 agosto 2009

Io, Lei


Di nuovo in piedi nel cuore della notte, come non mi capitava da anni.
L'antagonista del giorno ha assunto una forma diversa: questa volta è un quadro dai toni scuri, rilassanti, dei quali i miei occhi godono, e continuano a farlo anche quando i fari delle poche auto che sfrecciano a quest'ora rompono il silenzio del buio. Qualche goccia di pioggia sembra voler alterare ciò che osservo, trasformando la lastra di vetro in una tela bianca, sulla quale sono piovuti schizzi di una tinta argentata: impossibili da ignorare, ma solo se la luce li attraversa. La mia figura è vaga, indefinita, come se in effetti non avesse affatto voglia di farsi notare. Ci ripenso, mentre la mia vista fluttua nell'armonioso rumore del silenzio, e mi viene in mente che forse è davvero così, forse il mio riflesso non può che essere indeciso, indeterminato, proprio come lo è la mia storia con lei.
Mi volto delicatamente. Occupa il lato del letto che aveva scelto, avvolta per metà nelle sottili coperte di settembre, e per l'altra metà nella flebile luce che passa attraverso quella lastra di vetro che forse ho confuso per una tela. La parte alta del suo fianco sembra voler sovrastare il buio come un attore egocentrico vorrebbe fare con la sua platea, attirando cioè su di se le attenzioni di tutti gli occhi presenti in sala. I miei, di occhi, sono rapiti dai movimenti delle sue sinuose costole, che ad ogni respiro generano forme e ombre diverse, e desidererebbero stare sempre aperti, per poter raccontare di averle viste tutte.
C'è ancora il profumo di ieri sera nell'aria. Le rose sono ancora al loro posto, sul bordo di quelle ampie finestre che lei ha fatto mettere nel soggiorno, ma sembrano appassite, smunte, come se l'aver spento le candele avesse tolto loro la forza di essere rosse come quando erano nate. Mi rigiro verso la finestra, ed inizio a pensare a quanto indemoniato possa essere quell'attore, la cui conclamata pomposità trova riscontro in una triste orchestra da teatro con due soli musicisti al loro posto. Tutto il resto, tutta l'altra musica, è silenzio, sottile pentagramma di rabbia, forza di non avvertire la necessità di un concerto con trombe, archi e percussioni. Solo un contrabbasso, per scandire il ritmo dei nostri incontri, e il volatile suono del flauto, per tentare di rendere reale la fugace attrazione che ci lega.
La bottiglia di vino che avevo portato è ancora lì sul tavolo. Per un attimo mi rinviene il gioco di colori cui aveva preso parte, nel quale cercava di sfidare la luce riflessa negli occhi di Claudia, così viva, così accesa da farmi sentire assuefatto dal bagliore. Tutta colpa di quella candela che avevamo messo di fianco alla bottiglia, a metà strada tra me e lei, nello stesso punto in cui si trovano le cose che nelle nostre vite non sono andate come dovevano, nello stesso luogo dal quale nasce il bisogno di leccarci le poche ferite che abbiamo, nello stesso tempo in cui abbiamo deciso di avere paura della vita. Tutta colpa di un direttore d'orchestra che non è mai stato in grado di trovare altri musicisti e calmare quell'attore pazzo, o magari di quel bisogno che leggiamo l'uno negli occhi dell'altra.
Ancora auto che sfrecciano, e luci, e gocce di pioggia.
Ho voglia di tornare da lei, sdraiarmici accanto e sognare di non averla mai conosciuta, eppure sono ancora quì. Ancora io, a tratti su un vetro, ancora lei, prigioniera del sonno.
Nessuna colpa, per nessuno. Solo io, lei.
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Sai che cosa penso,
Che se non ha un senso,
Domani arriverà,
Domani arriverà lo stesso
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E' l'odore della pioggia
A scandire il ritmo
Della ruota che gira
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mercoledì 12 agosto 2009

Stairway to Heaven


Le scale, tutto ciò che ho davanti.
I muri vuoti riflettono il rumore secco delle mie suole, che ad ogni passo verso l'alto stritolano pietruzze, granelli di sabbia e tempo. Di nuovo quì, dopo otto mesi, chiamato a fare i conti con qualcosa di cui mi ero dimenticato, o a cui semplicemente non volevo pensare. Mani in tasca, colletto del cappotto alzato e sguardo piantato a terra, come se volessi farmi incantare dal ritmo dei gradini che si susseguono l'un l'altro, oppure, penso, come se non volessi farmi rimproverare dai muri che mi circondano, non fosse altro che per aver rotto il loro giovane silenzio, perchè poco prima sarà di sicuro passato qualcun'altro da quì.
C'è odore di muffa nell'aria, satura di quei sospiri che pospongono l'odio per il freddo e la pioggia invernale all'odio per il dolore. Chiudo un attimo gli occhi e faccio nascere dentro di me il pensiero più banale di questo quarto d'ora: cerchiamo tutti di evitare il dolore, perchè lo odiamo.
C'è odore di dolore nell'aria, e dunque c'è odore di odio. Ne trovo tracce nelle facce delle persone che ho intorno a me, mentre attraverso lo stretto corridoio, ne trovo accenni nei fugaci pensieri di chi siede nella stanza in fondo a destra, dove prendo posto anche io. Il vento da fuori sferza con inaudita aggressività, quasi volesse scoperchiare l'edificio e fare suo ciò che si trova al suo interno. Ma nemmeno lui riuscirebbe a pulire l'aria che noi stiamo respirando e della quale lei si affanna a godere.
In questa dimensione, in questo tempo, niente di materiale può essere spazzato, cancellato, oscurato, perchè niente di materiale esiste. Come turbini tumultuosi e irrequieti, i ricordi si muovono nella penombra della stanza, sopra di me, e poi sopra il letto di una donna che non conoscerò mai di persona, ma che mi ha conosciuto attraverso le mie lettere e le mie storie, e inscenano uno dei più efficaci amarcord che il mio esigente occhio vedrà mai. Lampi di vita e di esistenza dipinti a mano su parti di pellicola nate in bianco e nero, e il privilegio di essere spettatore è tale da non farmi pensare a un film rozzamente ricolorato dalla Technicolor, piuttosto da farmi sentire lacerato nella felicità e insieme sollevato nella tristezza per aver preso parte ad una storia.
Di fronte a me, anni di sofferenza congelati in un corpo messo a riposo sotto strati di coperte, appena sufficienti a difendersi dagli aghi di questo maledetto inverno. Lo osservo a tratti, di sfuggita, per non farmi notare da ciò che di più prezioso la vita gli ha dato. Loro hanno gli occhi smarriti, dispersi in un vuoto cupo e reticolare, che li ingabbia come la ragnatela fa con le mosche, senza concedere loro alcuna occasione per liberarsi.
Ed è ancora lui, possente, indemoniato, entità dalla quale non ci si può nascondere. Il vento impersonifica la presenza immateriale di un regista occulto, evanescente, eppure potente, che sembra dirigere i suoi attori al pari del burattinaio con i suoi sottomessi: muovendone i fili. Quando poi sente che il pubblico è troppo preso dalla storia che si sta raccontando, esplode in tutto il suo fragore, cercando di divelgere la finestra alla mia sinistra. Ancora qualche attimo, e riprendo il mio sguardo assorto da dove lo avevo lasciato, su un freddo gradino di travertino immerso nel gelo di una sera di febbraio. Richiudo il portone dietro di me e mi disperdo nel buio, ricordando quella storia, o forse quella leggenda, che parla di una donna che vuole acquistare una scala per il paradiso.
Un ghigno risentito mi attraversa il volto.
There's no Stairway to Heaven.

lunedì 10 agosto 2009

In stone we trust



Le basole riflettono la luce notturna in un'atmosfera dannata.

Il chiarore è artificiale e il ghigno lapideo sfuggevole, eppure intenso.

Il vagabondo occidentale fa sua la distanza tra una pietra e l'altra,

Non si volta, sorride, ride, deride.

Con occhio aggressivo scruta quelli che incontra,

Li incrocia, ne attraversa le anime e continua,

Fin'oltre il fosso dell'indifferenza,

Fino a dove la vista umana si perde, smarrita nell'oscuro bagliore.
E' solo una ringhiera, con dietro il mare al crepuscolo.
E' solo una insulsa notte estiva.

La ferraglia è fredda e dall'insolenza ridondante,

E' smussata, levigata, scalfita

Dai sogni di chi è già passato da lì.

Il vagabondo occidentale, il protagonista del suo mondo,

Non ammette comparse, fughe, ritorni.

E' affacciato, affaticato, intricato

Nei pensieri, sogni, parole, opere ed emozioni.

Non ammette comparse.

Vuole soltanto primi attori.