Le scale, tutto ciò che ho davanti.
I muri vuoti riflettono il rumore secco delle mie suole, che ad ogni passo verso l'alto stritolano pietruzze, granelli di sabbia e tempo. Di nuovo quì, dopo otto mesi, chiamato a fare i conti con qualcosa di cui mi ero dimenticato, o a cui semplicemente non volevo pensare. Mani in tasca, colletto del cappotto alzato e sguardo piantato a terra, come se volessi farmi incantare dal ritmo dei gradini che si susseguono l'un l'altro, oppure, penso, come se non volessi farmi rimproverare dai muri che mi circondano, non fosse altro che per aver rotto il loro giovane silenzio, perchè poco prima sarà di sicuro passato qualcun'altro da quì.
C'è odore di muffa nell'aria, satura di quei sospiri che pospongono l'odio per il freddo e la pioggia invernale all'odio per il dolore. Chiudo un attimo gli occhi e faccio nascere dentro di me il pensiero più banale di questo quarto d'ora: cerchiamo tutti di evitare il dolore, perchè lo odiamo.
C'è odore di dolore nell'aria, e dunque c'è odore di odio. Ne trovo tracce nelle facce delle persone che ho intorno a me, mentre attraverso lo stretto corridoio, ne trovo accenni nei fugaci pensieri di chi siede nella stanza in fondo a destra, dove prendo posto anche io. Il vento da fuori sferza con inaudita aggressività, quasi volesse scoperchiare l'edificio e fare suo ciò che si trova al suo interno. Ma nemmeno lui riuscirebbe a pulire l'aria che noi stiamo respirando e della quale lei si affanna a godere.
In questa dimensione, in questo tempo, niente di materiale può essere spazzato, cancellato, oscurato, perchè niente di materiale esiste. Come turbini tumultuosi e irrequieti, i ricordi si muovono nella penombra della stanza, sopra di me, e poi sopra il letto di una donna che non conoscerò mai di persona, ma che mi ha conosciuto attraverso le mie lettere e le mie storie, e inscenano uno dei più efficaci amarcord che il mio esigente occhio vedrà mai. Lampi di vita e di esistenza dipinti a mano su parti di pellicola nate in bianco e nero, e il privilegio di essere spettatore è tale da non farmi pensare a un film rozzamente ricolorato dalla Technicolor, piuttosto da farmi sentire lacerato nella felicità e insieme sollevato nella tristezza per aver preso parte ad una storia.
Di fronte a me, anni di sofferenza congelati in un corpo messo a riposo sotto strati di coperte, appena sufficienti a difendersi dagli aghi di questo maledetto inverno. Lo osservo a tratti, di sfuggita, per non farmi notare da ciò che di più prezioso la vita gli ha dato. Loro hanno gli occhi smarriti, dispersi in un vuoto cupo e reticolare, che li ingabbia come la ragnatela fa con le mosche, senza concedere loro alcuna occasione per liberarsi.
Ed è ancora lui, possente, indemoniato, entità dalla quale non ci si può nascondere. Il vento impersonifica la presenza immateriale di un regista occulto, evanescente, eppure potente, che sembra dirigere i suoi attori al pari del burattinaio con i suoi sottomessi: muovendone i fili. Quando poi sente che il pubblico è troppo preso dalla storia che si sta raccontando, esplode in tutto il suo fragore, cercando di divelgere la finestra alla mia sinistra. Ancora qualche attimo, e riprendo il mio sguardo assorto da dove lo avevo lasciato, su un freddo gradino di travertino immerso nel gelo di una sera di febbraio. Richiudo il portone dietro di me e mi disperdo nel buio, ricordando quella storia, o forse quella leggenda, che parla di una donna che vuole acquistare una scala per il paradiso.
Un ghigno risentito mi attraversa il volto.
There's no Stairway to Heaven.